INTERVISTA A EDMOND GILLIÉRON

di FAUSTO AGRESTA

Edmond Gilliéron è Professore Emerito di Psichiatria dell’Università di Losanna (Svizzera), già Primario al Policlinico Psichiatrico Universitario della stessa città. E’ Professore di Psichiatria all’Università di Montreal (Canada) ed è Psicoanalista della Societa’ Internazionale di Psicoanalisi. Ha compiuto gli studi di medicina a Neuchâtel, a Losanna e a Parigi. Nell’ambito della sua specializzazione in psichiatria, si è formato in terapia familiare, parallelamente alla psicoanalisi e questo lo ha indotto a portare il suo interesse sulla problematica del cambiamento psichico e dei mezzi per pervenirvi. In questo contesto ha sviluppato già dal 1967, al Policlinico Psichiatrico di Losanna, una tecnica di psicoterapia breve che ha mostrato la sua validità nel corso degli anni. Tra i suoi scritti più importanti ricordiamo: "Approche familial des troubles psychosomatiques en Médecine ambulatoire" (Rev. Med. Suisse rom. 109, 1989) ; "Grouppe Balint et therapie familiale" (in A. Missenard, M. Balint e altri, l’Experience Balint : Histoire et Actualité. Duond, Paris, 1982); Gilliéron E., Guex P., Piolino P., Bailli J.F.: "Aspects psychologiques de la consultation médicale: étude prospective de 385 cas (1976 – 1980)", Psychol. Med., 1982. Nel 1989, è stato tradotto in lingua italiana “Ai confini della psicoanalisi”, ed. Gli Archi, Torino e nel 1991 : "Psicoterapie brevi e d’urgenza-Applicazioni in psichiatria, in psicosomatica", Ed. Eur, Roma, (Trad. dal francese di Mirella Baldassarre). Già dagli anni ’90 i suoi numerosi seminari e gruppi di supervisione sono seguiti anche all’estero: a Parigi, in Canada, in Brasile e, in Italia, a Padova, Verona, Roma e a Pescara, presso la Società Italiana di Medicina Psicosomatica (sez. Pescarese). Gli ultimi libri tradotti in italiano sono : “Il primo colloquio in psicoterapia” (1995) e “Trattato di Psicoterapie brevi” (entrambi editi da Borla, Roma). Attualmente è Presidente Onorario dell’Istituto Europeo di Psicoterapia Psicoanalitica di Roma (IREP), Scuola di Specializzazione in Psicoterapia riconosciuta dal MIUR e fondata insieme con la Prof.ssa Mirella Baldassarre, Direttore e Rappresentante Legale dell'Istituto. Ricordiamo che il Prof. E. Gilliéron è anche Presidente dell’Associazione Svizzera Romanda per la psicoterapia analitica di gruppo ed è membro di numerose società scientifiche svizzere ed europee. Collabora con riviste specializzate in lingua inglese, francese e con Prospettive in Psicologia. -------------------------------------------------------------------------------- Ho conosciuto, di persona, il Prof. E. Gilliéron partecipando agli Incontri Internazionali Balint di Ascona (Svizzera) del 1989, organizzati dall’Illustre amico e compianto Boris Luban - Pozza. Uno dei tanti gruppi internazionali era condotto da lui e, senza retorica, tra i tanti conduttori, lo avevo percepito, io già con una formazione alle spalle, veramente interessante ed attento alle aspettative dei partecipanti, alla dinamica di gruppo che era allargata agli aspetti del contesto della dinamica familiare del paziente. Inoltre, cosa che andavo cercando tra gli psicoanalisti, l’attenzione agli aspetti dinamici e relazionali, dei disturbi psicosomatici. Tutto ciò rispecchiava le mie aspettative. Così ricominciai a studiare, a partecipare ai suoi gruppi di supervisione per diversi anni, indossando ancora una volta, la “divisa” di allievo. Subito lo invitai a Pescara a condurre un gruppo di supervisione per conto della Società Italiana di Medicina Psicosomatica ( SIMP Pescarese) che rappresentavo e che coordino tutt’ora. Gentilmente accettò l’invito e da allora è tornato tra noi per più anni e così è iniziata la nostra Collaborazione e gli incontri di Formazione. E’ stato nominato Socio onorario della SIMP al Congresso Nazionale di Firenze del 1993. L’ho seguito a Padova, poi a Verona, e in vari Convegni e Congressi a Roma, per completare la mia formazione fino al 1996, anche se, come spesso Gilliéron ha sottolineato, la formazione non finisce mai, perché abbiamo sempre da imparare, specialmente in questo campo. I suoi impegni sempre più pressanti in diverse parti del mondo, lo hanno portato, in tutti i casi, a realizzare il “sogno”, il suo progetto, come dirà nell’Intervsita, cioè quello di fondare la Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica di Roma, ora, punto esclusivo dei suoi rapporti professionali con i Colleghi e con gli Allievi. In occasione dell’VIII° Congresso di Montesilvano, il Prof. Gilliéron ha accettato di essere intervistato e il nostro incontro è stato utile e molto speciale per me e per i Lettori che avranno la possibilità di leggere l’Intervista qui riportata. Il Congresso di Psicoterapia, organizzato dall’IREP (Presidenti M. Baldassare e P. Petrini), con il tema dal titolo “ I disturbi della Personalità, Psicoterapia e Psicofarmacologia” è stato un evento molto importante per i medici, gli psicologi, gli psicoterapeuti e studenti. Tutti gli operatori hanno potuto apprezzare le relazioni dello stesso Gilliéron, di Lalli, di Balbi, di Biondi, di Lago, della Baldassarre e con la partecipazione di tutti gli gli iscritti ai gruppi di discussione di casi (dopo la proiezione di parti di due casi clinici preparati da M. Baldassarre). I leader dei gruppi sono stati: F. Agresta, A. Capani, A. Casadei, F. Fornari, A. Mandese, G. Offer, E. Stenico. Alla fine dei lavori dei piccoli gruppi c’è stata la riunione nel Grande gruppo con la supervisione di Gilliéron. Tra i tanti Convegni e Congressi che l’IREP organizza ormai da dieci anni in diverse città d’Italia e in Svizzera, nella cornice di questo Congresso e alla fine dei lavori congressuali di una intensa seconda giornata, il Prof. Gilliéron è stato disponibile ad essere intervistato. Eravamo di fronte ad un mare bello e calmo a Montesilvano, su un ampio terrazzo che dava sul mare… Questa premessa era d’obbligo per introdurre anche il pensiero e il percorso formativo del Prof. Gilliéron. Comprendere l’originalità dell’approccio teorico e tecnico alla psicoterapia breve del Prof. E. Gilliéron, caposcuola della più prestigiosa Scuola Europea di psicoterapia breve – quella della Scuola di Losanna, appunto, nata nel 1967 – significa riconoscere alla sua personalissima impostazione una portata “rivoluzionaria”, rispetto all’attuale panorama delle tecniche di psicoterapie a breve termine, presenti sulla scena psicoanalitica. Al fine di individuare gli elementi più importanti e caratteristici del pensiero e della prassi di E. Gilliéron e della Scuola Losannese, si ritiene utile una ricostruzione sintetica della nascita e dell’evoluzione storica della psicoterapie brevi, a partire dalle radici psicoanalitiche freudiane. Sappiamo da varie fonti che Freud nel corso della sua autoanalisi, iniziata nel momento della morte di suo padre, abbandonò parzialmente la teoria del traumatismo psichico a vantaggio di una teoria del fan­tasma e del conflitto intrapsichico. A questo mutamen­to sul piano teorico corrispose un cambiamento nella tecnica. Freud comincio ad attribuire minore importan­za ai sintomi, interessandosi, al contrario, sempre più all’organizzazione psichi­ca della personalità: egli tentò, nella sua attività interpretativa, di rivelare al paziente le sue resistenze, evitando di combattere contro di esse, così da rendere più “conflit­tuale” e più dinamica la relazione. In tale contesto, Freud scoprì il transfert e la compulsione alla ripetizione evidenziandone il carattere di “messa in atto del ricor­do” che impedisce di ricordare realmente. Successi­vamente egli individuò un altro interessante fenomeno: la reazione terapeutica negativa (reazione parados­sale di aggravamento dei sintomi dopo un’interpreta­zione adeguata), considerandola come ulteriore resistenza del paziente a non cambiare. Da quel mo­mento in poi il dibattito psicoanalitico si concentrò sul problema dell’intensità di alcune resistenze al cambia­mento e della eccessiva durata dei trattamenti analiti­ci. Lo stesso Freud, all’inizio, sia con l’ipnosi, che con i primi trattamenti analitici, faceva delle terapie brevi. Curò Bruno Walter, direttore d’orchestra affetto da paralisi isterica al braccio destro, in sole sei sedute, come nel caso "Katherina", riportato da Freud negli "Studi sull'isteria". Così, pian piano, si svilupparono anche vari movimenti di dissidenza rispetto alle posizioni ortodosse che produssero, a loro volta, diverse scissioni rispetto alle teorizzazioni freudiane. La posizione più “eretica”, in tal senso, fu quella del suo pupillo, S. Ferenczi, una posizione fonda­ta sul concetto di “tecnica attiva”. Egli sosteneva che nei momenti di “empasse” di una cura, lo psicoanalista riusciva a dare un nuovo impulso al processo terapeutico trami­te alcune ingiunzioni o proibizioni indirizzate al pazien­te con lo scopo di posizionarlo dinamicamente per affrontare in modo diretto e attivo le sue paure. Ferenczi utilizzava con i pazienti ingiunzioni che, aumentando la tensione intrapsichi­ca, facilitavano le prese di coscienza del suo mondo interno. Il risultato era un aumento di tensione a cui corrispondeva la comparsa nella coscienza di una pulsione fino allora nascosta. Una di queste misu­re era di fissare precocemente il termine del trat­tamento (ricordiamo in proposito che anche Freud fissò la fine dell’analisi all’Uomo dei Lupi). Possiamo quindi affermare che l’origine delle psi­coterapie brevi risale alle prime esperienze di Ferenczi nel 1918. Poi, il suo allievo M. Balint, ha condiviso col maestro la terapia attiva, ma lo ricordiamo per questi altri due motivi: la tecnica del flash e per la terapia focale. E poi, naturalmente, per il metodo del Gruppo Balint, che in senso lato è inteso anche come una “formazione breve”, a tempo limitato, a più riprese. Franz Alexander, dopo l’emigrazione forzata da Berlino a Chicago, fondò l’Istituto di Psicoanalisi anche nella città statunitense. Egli aveva preso spunto dalla tecnica attiva di S. Ferenczi, e nel 1931 elaborò la teoria “dell’esperienza emozionale correttiva”. Le teorizzazioni di Alexander e French riscossero notevole successo. Nel 1941 a Chicago, si svolse il pri­mo Congresso di Psicoterapie Brevi. Egli, insieme a Thomas French, affermò che la guarigione da una ne­vrosi non avveniva attraverso il ricordo di eventi pas­sati, bensì mediante la possibilità di rivivere quegli stessi eventi, in una relazione che fornisse un’”espe­rienza correttiva” e breve. Per entrambi, il terapeuta, attraver­so una serie di atti specifici, aveva il compito di “correggere” i traumi del passato, offrendo al paziente un clima nuovo e diverso da quella offertogli dai suoi genitori. Du­rante il secondo conflitto mondiale e successivamente (1940 -1950) molti psichiatri produssero studi e pub­blicazioni sulle psicoterapie brevi, dapprima, orientan­dosi verso le nevrosi attuali, in seguito, passando all’interesse per i conflitti attuali e relazionali. Tra il 1950 e il 1960 le pubblicazioni e le ricerche degli studiosi aumentarono, special­mente nei paesi anglosassoni, orientando le analisi, soprattut­to, ai temi dei bisogni della popolazione. Tra i più importanti ed attuali modelli di psicotera­pie brevi, ricordiamo quello di Bellak e Small di New York, quello di D. Malan a Londra, quello di Peter Sif­neos che lavora a Boston, di Davanloo a Montreal e naturalmente la tecnica di Gilléron a Losanna. La tec­nica psicoterapica di Bellak e Small si basa su alcuni tratti di lavoro ben precisi: l’identificazione del proble­ma attuale del paziente e lo sviluppo di un’ipotesi, con­fermata e falsificata, attraverso l’anamnesi; la scelta di interventi verbali e/o più attivi, finalizzati alla elimi­nazione dei sintomi; l’elaborazione del problema ed il consolidamento dei nuovi comportamenti e la fine della cura mantenendo un transfert positivo con il pa­ziente. Caratteristica di questa impostazione è l’eclet­tismo dei metodi impiegati: sono utilizzate anche alcune tecniche appartenenti al comportamentismo. Intorno al 1955, Malan, allievo di Balint, apparteneva ad un gruppo di terapeuti coordinato da Balint stesso che lavora­va molto attivamente, con trattamenti brevi di orienta­mento analitico (faccia a faccia, fissazione di un termine della cura, ipotesi psicodinamica di base), ispi­rati al primo metodo di Freud, e denominati “psicote­rapia focale”. Egli si è interessato ai criteri di selezione dei pazienti per tale tipo di terapia ed ai risultati conseguiti. Malan ha individuato, tramite approfonditi studi cata­mnestici, alcuni fattori basilari per la buona riuscita dei suddetti trattamenti, tra cui: una forte motivazione al cambiamento ed all’autoconoscenza da parte dei pa­ziente e la possibilità di focalizzazione della cura. Riguardo alla tecnica di Sifneos, che ha lavorato presso il Massachusset Hospital, a Boston, possiamo dire che egli distingue, sostanzialmente, due tipi di psicoterapie: la psicoterapia ansiolitica o di supporto, utile ai pazienti in crisi, e finalizzata a diminuire l’ansia e la psicoterapia a breve termine provocatrice di ansietà, finalizzata a provocare tramite la presa di coscienza, la risoluzione di un problema. Possiamo osservare che i modelli di psicoterapia breve appena descritti, presentano alcune caratteristiche comuni: la scelta dei pazienti, la focalizzazione del problema principale del paziente attraverso un’ipotesi psicodinamica basale e la maggiore o minore attività del terapeuta. Altri Autori rifiutano i pazienti che si caratterizzano per la cronicità della malattia, per le difficoltà di esprimere le emozioni (gli alessitimici di Sifneos). La tecnica del prof. Gilliéron si distingue dalle precedenti per diversi aspetti. Innanzitutto, a detta di Gilliéron, è fondamentale l’influenza del setting (la limitazione tem­porale ed il faccia a faccia ne costituiscono gli elementi maggiormente determinati) sul funzionamento psichi­co del paziente: esso, secondo la sua ipotesi, agisce sul processo associativo, condizionandolo fortemente. Inoltre l’at­teggiamento del terapeuta in relazione a tali caratteri­stiche del quadro, è meno attivo verbalmente - ma più attivo nel pensiero - lasciando più spazio alle associa­zioni libere del paziente. Il terapeuta propone un’ipo­tesi psicodinamica di base alla fine del primo colloquio (o alla fine del secondo) della fase dell’investigazione( totale quattro colloqui). Ed è proprio “l’investigazione” a costituire l’aspetto più ori­ginale di tale impostazione metodologica. Essa con­siste in quattro colloqui iniziali, alla fine dei quali il terapeuta ed il paziente devono decidere o il termine della cura o l’impegno per un trattamento di più lunga durata (da sei mesi ad un anno). Il terapeuta, infine, interpre­ terà l’attuale disorientamento in relazione al conflitto intrapsichico attivato dal desiderio di cambiamento. Al termine di questo primo colloquio, egli può anche de­cidere di non dare al paziente la cosiddetta “interpre­tazione iniziale”. Si tratta di una specie di interpre­tazione di prova, elaborata in base all’osservazione di ciò che il paziente fa e dice, prima e durante la con­sultazione, ed in base all’analisi del suo controtransfert. Tale tipo di interpretazione, fina­lizzata anche ad esplorare la motivazione al cambia­mento del paziente, può essere offerta allo stesso paziente du­rante la seduta successiva, così che il terapeuta la prepari, attraverso l’osservazione e la riflessione sulle sue reazioni e sulle dinamiche interne, tra la prima e la seconda seduta. La seconda e terza seduta, so­no riservate alla elaborazione delle reazioni del pazien­te all’interpretazione iniziale. La quarta ed ultima seduta è dedicata, invece, alla decisione di continuare, se il paziente lo desidera, o di concludere se ha ottenuto quei minimi cambiamenti interni di cui aveva bisogno. (Rimandiamo i Lettori allo studio di questa tecnica che è stata ben descritta nel già citato libro “Il primo colloquio in psicoterapia”). L’intervista apre molte questioni, non solo sulle psicoterapie brevi, ovvio. Mi pare che il Lettore troverà ancor più interesse ad approfondire il pensiero psicoanalitico e in particolare quello del Prof. Gilliéron, uno tra i protagonisti internazionali della psichiatria psicoanalitica. Attraverso i suoi scritti o, meglio ancora, iscrivendosi all’IREP, qualsiasi utente, professionista o specializzando, avrà l’occasione di lavorare in ”diretta”, come è ormai prassi comune per “essere” un buon psicoterapeuta. -------------------------------------------------------------------------------- Montesilvano (Pescara), maggio 2003 AGRESTA: Caro Prof. Gilliéron, dopo dieci anni circa dalla prima Intervista apparsa su Prospettive in Psicologia, eccomi di nuovo ad intervistarti. Ora, in occasione del VIII Congresso di Psicoterapia Psicoanalitica a Montesilvano - organizzato dall’Istituto di Ricerche Europee in Psicoterapia Psicoanalitica di Roma di cui sei il Direttore – mi è sembrato cosa utile e notevole da tutti i punti di vista affrontare alcune tematiche così attuali, oltre al piacere di partecipare a questo Congresso. Partiamo, brevemente, dalla tua storia professionale e dalla tua formazione, tu che hai conosciuto molti illustri personaggi della psichiatria e della psicoanalisi mondiale. GILLIÉRON: I più illustri personaggi che ho incontrato, a parte i miei colleghi o maestri di Losanna, direi che sono nel campo sistemico come Watzlawick, la Selvini, Cailler a Oslo, e anche tanti di questi nel campo psicoanalitico. Conosco la maggior parte dei grandi psicoanalisti francesi, soprattutto Andrée Green con cui ho fatto dei seminari, Berger, Diaktine, Lebovici, Kestemberg; in Svizzera … de Saussure, insomma, tutti i grandi. Poi, fra i miei amici c’erano D. Anzieu, che è morto recentemente, c’è Kaës, il mio amico Widlochër che è Presidente della Associazione Psicoanalitica Internazionale, e così via… ma non posso nominarli tutti. Negli Stati Uniti, infine, ho incontrato Modell, che è sempre più riconosciuto; poi c’è Sifneos, che è anche un amico mio, poi Malan, Davanloo: questi grandi della Psicoterapia Psicoanalitica Breve. Sì, questi li conosco tutti. Ho parlato con loro, abbiamo avuto molti scambi, e abbiamo anche organizzato Congressi insieme, a Losanna; e, poi, ricordi anche tu con Sifneos, più volte a Padova, per esempio. Ma tutto questo l’ho fatto anche per paragonare il mio metodo con il loro metodo. AGRESTA: Come molti sanno, i tuoi studi e le tue ricerche al Policlinico Psichiatrico Universitario di Losanna riguardo ai primi approcci alle psicoterapie analitiche brevi risalgono alla fine degli anni ‘60. Puoi ricostruire, brevemente, i passaggi fondamentali che ti hanno condotto ad elaborare la tecnica dei primi quattro colloqui, ormai codificata tra noi professionisti e poco conosciuta tra gli studenti? GILLIÉRON: Sì, posso fare una breve panoramica. Diciamo che tutto è cominciato quando, pur essendo di formazione psicoanalitica, ho fatto i miei primi studi sul funzionamento della famiglia, grazie a Luc Kaufman che aveva studiato queste tecniche sistemiche negli Stati Uniti, pur essendo anche lui di formazione psicoanalitica. Quando è tornato a Losanna ho lavorato con lui e abbiamo condotto degli studi sul funzionamento delle famiglie, specialmente all’inizio. E poi, l’atto fondamentale è stato nella prima settimana del mio lavoro al Policlinico Psichiatrico Universitario di Losanna: lì lavoriamo una volta la settimana sulla base di registrazioni di sedute di psicoterapia o di interviste di pazienti. QQ q uella settimana era la prima volta che sentivo una seduta così e sono intervenuto immediatamente, dicendo: “Ah, ma si tratta di una paziente schizofrenica”. Allora, dopo due o tre minuti, il mio professore si era arrabbiato affermando: “Ma come mai, senza sintomi, senza aver fatto una investigazione profonda, senza saper niente del paziente lei può dire una cosa simile!”. Io ho risposto dicendo che questo si leggeva sul tipo di dialogo che si era creato tra il paziente e il suo terapeuta. A quel punto, il mio professore non ha voluto accettare questo e mi ha chiesto di spiegare il mio metodo. Mi ha lasciato una settimana per lavorarci sopra e la settimana successiva ho presentato tutti i disturbi della comunicazione che si erano creati durante l’intervista della paziente da parte del medico. E’ vero che non c’erano sintomi, è vero che non c’era nessun sintomo di tipo psicotico ma il dialogo era chiaramente simile al dialogo che si osserva nelle famiglie di psicotici. La cosa importante di cui non mi ero accorto immediatamente era che avevo spostato il tipo di analisi che facevamo sul funzionamento delle famiglie psicotiche dentro la relazione terapeutica. Mi ero accorto di un aspetto fondamentale, ma senza saperlo immediatamente, cioè che qualcosa della problematica di un paziente con la sua famiglia si ripete nella relazione terapeutica. Questo è stato il primo passo, spontaneamente, cioè spostare all’interno della relazione terapeutica il risultato degli studi che avevamo fatto sulle comunicazioni all’interno delle famiglie. Ho continuato così perché mi ero accorto che disponevo, lì, di uno strumento potente di diagnosi: cosa che non potevo sapere prima. Era anche il primo momento dove ho potuto mettere in evidenza un rapporto tra qualcosa di osservabile, vale a dire un sistema di interazione tra un medico e un suo paziente, e una problematica intrapsichica, cioè la patologia del paziente, il funzionamento patologico di un paziente, non la sintomatologia del paziente. Questo è stato il primo passo fondamentale. Il secondo passo è stata la scoperta, anche qui per caso, dell’influenza del setting temporale. Quando tre pazienti mi hanno annunciato che dovevano chiudere la terapia prima del previsto – ed io ho deciso di non indirizzare il paziente a qualcun altro, ma di andare avanti fino al termine della cura. In quel momento mi sono accorto che la dinamica relazione cambiava molto. Infatti, proprio allora, ho percepito l’importanza del setting, non sul paziente, ma sulla relazione che si crea tra il paziente e me. Ho realizzato che non solo il paziente si comportava in una maniera diversa, ma che anch’io ero portato ad adottare un atteggiamento diverso di prima: cioè, ascoltavo meglio, ero più attento ai movimenti preconsci del paziente. Questo è stato il secondo passaggio. Tutto ciò mi ha spinto a studiare l’effetto del setting sulla relazione terapeutica, non sul paziente. E questa era anche una mossa diversa da quello che si faceva quando si pensava che un setting analitico, per esempio, è imposto al paziente. Mentre ho detto: “In realtà il setting analitico è qualcosa che ha una influenza sul paziente e sul terapeuta”. Così ho studiato sia l’effetto del limite temporale, sia il passaggio a faccia a faccia; e poi mi sono interessato alla dinamica gruppale (il Policlinico aveva una lunga tradizione di gruppoanalisi) cioè all’influenza della situazione di gruppo sul funzionamento globale della relazione terapeutica. E poi ancora con le famiglie, dal momento che, grazie al mio lavoro su queste, ho potuto accorgermi di questo problema. Ma tutto ciò è stato un lungo tragitto, un lungo viaggio di elaborazione perché le cose che si fanno spontaneamente non si possono immediatamente spiegare. E’ chiaro che ho dovuto studiare, riflettere, leggere per capire la differenza tra il mio approccio e l’approccio abituale. Dal momento che mi ero interessato alla dinamica temporale, alla problematica del tempo, alcuni studiosi mi hanno definito come un uomo delle psicoterapie brevi, mentre io mi interessavo soprattutto alla problematica relazionale e alla problematica del cambiamento psichico. Da questi studi abbiamo sviluppato una tecnica di psicoterapie brevi basata non sull’attività del terapeuta, sulla focalizzazione, ecc., ma basata sulla studio della dinamica relazionale che si manifesta in contesti diversi. E’ questa la specificità del mio approccio. AGRESTA: Infatti, dalle tue ultime ricerche emerge un concetto fondamentale da te creato e denominato “appoggio oggettuale”. E’ chiaro che alla base c’è una teoria. Puoi spiegarlo a coloro che si avvicinano, per la prima volta, al tuo pensiero: penso alle nuove generazioni di medici, psicologi e di psicoterapeuti. GILLIÉRON: Sì, in effetti, questo è un concetto che non è apparso immediatamente. E’ un concetto che ho dovuto creare per descrivere il rapporto che esiste tra quello che chiamiamo il funzionamento psichico, cioè, la nostra vita interna e il rapporto interattivo, vale a dire, la relazione reale con gli altri. Così, grazie a questo concetto ho potuto verificare delle ipotesi su questo rapporto, cioè tra quello che accade in una relazione osservabile, dove si possono osservare delle interazioni, e quello che sappiamo del funzionamento intrapsichico. Così, progressivamente, mi sono accorto che ciò che potevamo mettere in evidenza, grazie alla nozione di appoggio oggettuale, è il rapporto fra una certa organizzazione di personalità (cioè un carattere individuale di un paziente, di una persona qualunque) e il tipo di relazioni affettive che si annodano con gli altri: questa è la nozione di appoggio oggettuale. Di conseguenza, osservando un paziente e il suo terapeuta in interazione, possiamo dedurre il tipo di problematica di cui soffre il paziente e anche ogni tanto della problematica del terapeuta stesso. Ma per fare questo dobbiamo tener conto di due tipi di problemi: la problematica del setting, cioè, il contesto dell’incontro e la problematica interattiva, vale a dire, il tipo di relazione, la natura della interazione che si crea. AGRESTA: Vorrei ricordare che nel tuo ultimo libro “Trattato di psicoterapie brevi” che ho recensito insieme con l’altro ”Il primo colloquio in psicoterapia”(n.d.r.: pubblicati da Borla) proprio sulla rivista Prospettive in Psicologia, hai messo a fuoco tra le altre questioni, il problema delle dinamiche delle psicoterapie analitiche brevi del setting e dei suoi scogli: durata, dispositivo, transfert iniziale dello psicoterapeuta e poi l’approfondimento della problematica dell’organizzazione psichica della personalità. Ecco, in quali casi, invece, è preferibile orientarsi per una psicoterapia a lungo termine? GILLIÉRON: Ma tu sai che il mio approccio è flessibile.. direi che tutto dipende non solo della problematica del paziente, ma anche di fattori esterni (contestuali) e di quella del terapeuta stesso. Dunque non posso più ragionare come si fa di solito nel campo delle psicoterapie brevi o nel campo della psicoanalisi in termini di indicazione. Non posso più dire che questo paziente è adatto a tale o tale tecnica: devo tener conto del momento dell’incontro tra il paziente e il terapeuta. Poi, devo tener conto del momento di crisi che sta vivendo il paziente. Allora, quello che posso dire è che la posizione ultima, la mia posizione attuale è che il trattamento più breve e quello che è il più adatto alla problematica del paziente nel momento in cui consulta il terapeuta. Un trattamento di lunga durata, ma efficace, può essere un trattamento breve in questo senso, perché, sarà l’unico modo di affrontare la patologia del paziente nel momento in cui chiede aiuto. Per esempio, se vedo un paziente in uno stato di crisi e questo è il suo primo passo terapeutico, molto spesso potrò proporre un intervento di breve durata, se tengo conto del suo funzionamento psichico. Dunque, la mia attitudine terapeutica sarà molto diversa, se si tratta di un paziente chiaramente nevrotico o di un paziente di struttura psicotica. Non posso fare la stessa cosa, non posso adottare lo stesso linguaggio, ma lo scopo ultimo è sempre lo stesso: permettere al paziente di crescere, di maturare grazie all’insight, grazie alla mia posizione psicanalitica. AGRESTA: Questo, naturalmente, riguarda anche l’indicazione che spesso si fa per la psicoterapia di gruppo; praticamente, in tutti i casi è meglio iniziare sempre con una terapia individuale oppure, come fanno spesso alcuni psicoanalisti di gruppo, iniziano subito con una psicoanalisi di gruppo? GILLIÉRON: No, allora, io sono molto più flessibile e lì tengo conto ogni volta della situazione. Per esempio, con un paziente di struttura psicotica che sta sull’orlo di una crisi che potrebbe condurlo a fare una crisi schizofrenica chiara, lì, molto spesso, se ne ho la possibilità, lavoro con la famiglia intera, perché so che la fragilità del paziente mi impone di appoggiarmi sul suo ambiente. AGRESTA: Sul suo gruppo. GILLIÉRON: Sul suo gruppo familiare primario, questo sì. Questa è una situazione. Ma se ho da fare con uno schizofrenico di vecchia data, so, perfettamente, che non otterrò mai un risultato simile a quello che ottengo con un adolescente in fase critica. Allora lì, cambio il mio atteggiamento; forse, lo vedrò, diciamo individualmente; ma se lui cade in crisi, di solito dovrò trovare un appoggio su una figura genitoriale o sulla famiglia, se la famiglia esiste. Per esempio, con una paziente chiaramente schizofrenica, ogni volta che era in crisi dovevo ricorrere all’appoggio dei genitori, soprattutto del padre, per iniziare un trattamento psicofarmacologico, anche se questa è una situazione particolare. Mentre ci sono pazienti che consultano spontaneamente e individualmente e che dispongono di una certa autonomia: con questi non farò mai appello ai genitori, neanche agli amici, perché questa sarebbe una posizione difensiva da parte mia. Per esempio, coi borderline e con le personalità dipendenti ecc., non farò mai questa cosa. Mi appoggerei sul paziente e lavorerei con lui, ma di nuovo in una maniera diversa se si tratta di un borderline o se si tratta di un prepsicotico, o se si tratta di una personalità dipendente o immatura. AGRESTA: A proposito del ruolo dello psicofarmaco nei gravi disturbi della personalità, io che ti conosciuto molti anni fa in Svizzera, e poi ai Seminari di Padova, Verona e Pescara, così, per anni, non ho sentito parlare di farmaci nell’approccio terapeutico in maniera così intensa come è accaduto ultimamente. A dire il vero, oggi, nei Congressi e nei Convegni molti colleghi propongono nelle loro relazioni una integrazione sempre più stretta tra psicoterapia e psicofarmacologia. Qual è il tuo parere, caro Professore? Si è aggravata la società, le malattie sono più pericolose oggi che nel medioevo…oppure le industrie farmacologiche spingono a medicalizzare e parcellizzare sempre di più l’uomo attuale? O, cos’altro? GILLIÉRON: C’è un insieme di fattori. Prima cosa, non ho mai rifiutato di prescrivere un farmaco quando questo mi sembrava utile. L’unica cosa che posso dire è che, all’inizio, ho accettato le proposte dei miei professori, cioè, di separare la prescrizione dalla psicoterapia, insomma, di fare una presa in carico doppia: uno prescrive e l’altro fa la psicoterapia. A questo punto ho pensato, ho visto che c’erano tanti problemi e che era preferibile fare la prescrizione da se stesso. Dunque non faccio la doppia terapia. Ma per fare questa prescrizione dobbiamo tener conto di diversi fattori: il primo fattore è il significato per il paziente della prescrizione in sé, non solo dell’effetto farmacologico eventuale della prescrizione, della medicina. AGRESTA: Un significato solo simbolico? GILLIÉRON: Sì, il significato simbolico, ma anche come il paziente riceverà questo. Il paziente può avere l’impressione che rinuncio a prenderlo in cura. Per esempio, una paziente con un nucleo depressivo, e so benissimo che lei che ha avuto una madre depressa, grave, non sopporta l’idea di un farmaco; con lei cerco di elaborare questo problema, ma nel momento in cui rifiuta il farmaco, non lo prescrivo, anche se da un punto di vista ideale, potrei dire sarebbe il caso, ogni tanto, di prescriverlo. L’altro fattore è il rapporto tra l’effetto psicoterapico e l’effetto psicofarmacologico. Io lavoro sulla base di

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